Heysel 40 anni dopo: la verità sulla coppa della vergogna
Ivan Zazzaroni, testimone diretto all'Heysel, rivela alcuni retroscena sula notte della strage

BRUXELLES – Sono trascorsi quarant'anni, ma il fetore di quella notte all'Heysel non svanisce. Il 29 maggio 1985 doveva essere una festa del calcio, la finale della Coppa dei Campioni tra Juventus e Liverpool. Si trasformò in un mattatoio. Ero lì, il mio primo servizio da inviato, e quel che resta impresso è un'orrenda, indelebile miscela di calcio e violenza, sangue e un disonore che pesa come un macigno sulla coscienza collettiva. Altro che coppa: fu il trionfo della morte allo stadio, della vergogna più indicibile.
Quel trofeo, alzato in uno scenario da incubo, non ha mai avuto il sapore della vittoria, né della gioia autentica. Solo lacrime, versate per i 39 angeli volati via in un conflitto assurdo, prima ancora che il fischio d'inizio sancisse l'inizio di una non-partita. Qualcuno osa ancora dire che il successo sia la miglior vendetta. Non quella notte. Non in quel caso. Chiedetelo a campioni come Marco Tardelli, Gaetano Scirea e Antonio Cabrini, eroi di una squadra – e di una Nazionale – abituata a vincere tutto, dal Mondiale ai campionati, dalle Coppe europee alla Coppa Italia. Loro, che quella sera tagliarono un traguardo sportivo, hanno da subito avuto l'esatta, terribile percezione di ciò che era realmente accaduto.

La Lettera ritrovata "Giocammo con la Morte nel Cuore, Non Volevamo Farlo"
La "verità" su quella coppa maledetta emerge dalle loro stesse parole, affidate insieme a Paolo Rossi a una lettera consegnata alla stampa straniera, un grido di dolore e di dissociazione che squarcia il velo dell'ipocrisia. "Preferiamo non fare commenti tecnici su una partita giocata soprattutto per gravi motivi di sicurezza, e poi questi commenti tecnici suonerebbero assurdi data l’ampiezza della tragedia", scrissero con coraggio. E poi, la confessione che pesa come un macigno sulla storia di quella finale: "Non volevamo giocare per rispetto dei nostri compatrioti morti. Ce lo hanno imposto...".
Immaginate il dramma: sapere dei morti, dei feriti, e essere costretti a scendere in campo. "Non sapevamo cosa fare alla fine della partita", continuava la lettera, "onorare le vittime, dirigerci verso il luogo del disastro e magari eccitare ulteriormente gli animi, oppure recitare sino in fondo la nostra parte, perché dopotutto credevamo il pubblico ignaro della tragedia". Una scelta disumana, compiuta "con la morte nel cuore". E un appello disperato: "Ora speriamo che nessuno ci chieda più una cosa del genere. Mai più. L’unico nostro pensiero è per i morti, i nostri feriti, le famiglie delle vittime, la loro angoscia, il loro dolore, i loro problemi...". Questo, e solo questo, è il sentimento che lega quei campioni all'Heysel, non certo il ricordo di una coppa.
Un Calcio Umiliato: la Partita dell'Heysel e i Fantasmi della Storia
Il pensiero di Antonio, Gaetano, Marco, e di chiunque fosse presente quella sera – come il sottoscritto, il mio direttore Italo Cucci, Marino Bartoletti e un Bruno Pizzul visibilmente turbato poco più sotto di noi in quella tribuna fatiscente – va solo e soltanto ai morti, non a quella Coppa insanguinata. Va a quella partita subita, vissuta come un ossessivo, umiliante confronto con i cadaveri del settore Z e con le immagini agghiaccianti che la televisione mostrava a un pubblico attonito a casa.
Un incontro di calcio che a molti, in quelle ore surreali, ricordò sinistramente la macabra finzione di quel film ambientato in un campo di concentramento nazista, dove una partita veniva giocata unicamente per sedare i rivoltosi, prima di un finale tanto drammatico quanto spettacolarmente cinematografico. Ma qui non c'era finzione, solo la cruda realtà di biglietti che dovevano regalare divertimento e che invece distribuirono morte. Era il dodicesimo assalto della Juventus alla Coppa più prestigiosa, ma tutto, dalle 19:15 di quel maledetto 29 maggio, perse di significato.

Un Ciclo di Vittorie Macchiato per Sempre
Questa storia tristissima, con i suoi risvolti più drammatici, è un capitolo nero incastonato nel romanzo calcistico, altrimenti glorioso, di quella generazione di campioni juventini. Nessuno prima di loro aveva costruito un'opera sportiva così imponente. Un ciclo iniziato con l'arrivo di Giovanni Trapattoni nel '77-'78, con una squadra tutta italiana che aveva già alzato al cielo una Coppa UEFA e vinto campionati da record. Quella stessa squadra che vide Scirea, Tardelli e Cabrini diventare colonne insostituibili, protagonisti del trionfo Mondiale in Spagna nell'82 e della Coppa delle Coppe nell'83, oltre a innumerevoli successi nazionali.
Mancava solo la Coppa dei Campioni, sfuggita più volte, anche in quella sfortunata finale di Atene contro l'Amburgo. Il dodicesimo assalto, quello dell'Heysel, fu quello "buono" solo per le statistiche. Ma quella coppa, al di là del risultato sportivo, resterà per sempre la "coppa della vergogna", un monito perenne sui valori perduti di uno sport che, quella notte, mostrò il suo volto più disumano. Il temperamento, l'esuberanza atletica e psicologica di quei grandi campioni furono messi alla prova più dura, non da un avversario sul campo, ma dall'orrore della storia.